Quando il rumore della vita teme la propria eco
Stavros Zafirìu è nato a Thessaloniki dove risiede. Il poeta è autore di numerose raccolte di poesia, di una prosa e di alcune favole. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue. Svolge attività di critico letterario nelle maggiori riviste elleniche, mentre sue poesie sono comprese in tutte le antologie della Poesia Contemporanea Greca. Quando il rumore della vita teme la propria eco, che presenta l’introduzione e la traduzione a cura di Crescenzio Sangiglio, è stato pubblicato in collaborazione con la Fondazione Marino Piazzolla di Roma presieduta da Velio Carratoni. Il volume è composito, articolato e bene strutturato architettonicamente anche perché comprende componimenti tratti dalle raccolte La seconda farfalla e il fuoco (1992), Atropo dei giorni (1998), Corporis Verbum (2004), Territoriali (2007), Reità (2010) e Difficile (2014). Una poetica intellettualistica, complessa, sempre in progress, in continua evoluzione per forma, stile e tematiche è la cifra essenziale del poiein di Zafirìu. Egli è uno degli esponenti di maggior rilievo per spessore creativo e valenza ispirativa della generazione greca dell’80. Nell’impossibilità in questa sede di analizzare in maniera profonda e particolareggiata tutti i materiali prelevati dai sei testi dell’autore, ci si sofferma sulla definizione delle caratteristiche fondamentali del suo lavoro. Si parte dalla costatazione del dato della sua estrema eterogeneità, ponendo come premessa che Stavros è un poeta al di fuori di ogni corrente. Sembra opportuno fare una riflessione sul titolo, nel quale è detto che il rumore della vita teme il suo riflesso. Da questo possiamo renderci conto che l’etimo che sottende l’opera in toto è quello di una concezione della vita stessa vista come connotata da una serpeggiante inquietudine, da quello che Montale stigmatizzava come il male di vivere. Viene in mente, riferendoci al rumore di vivere, il titolo del romanzo di Cesare Pavese Il mestiere di vivere, pur essendo i due autori lontanissimi tra loro per vissuti, appartenenza geografica e sensibilità. Se andare avanti nell’iter esistenziale da adulti è difficile, sembra che Zafirìu voglia farci intendere che ad ogni azione umana (il rumore) in tutti i settori (nel pubblico e nel privato) segue una conseguenza, quella che lui definisce un eco. Del resto la realtà è fatta di ostacoli ed esami da superare in tutti i suoi settori e nulla di quello che è stato fatto, come ogni singola parola pronunciata, rimane senza effetto, nemmeno i sintagmi della poesia. Nel discorso del poeta si riscontra una molteplicità di registri espressivi e i versi, pur essendo quasi sempre anarchici, fino a sfiorare l’alogico, hanno un andamento narrativo e affabulante. Le atmosfere prodotte sono molte volte grottesche nella loro visionarietà con le loro suggestioni da onirismo purgatoriale. Le descrizioni sono molto intense e in esse si evidenziano densità metaforica e sinestesica. Alta la poesia Lilith, tratta da La seconda farfalla e il fuoco, nella quale sembra rivelarsi un virtuale osservare situazioni da parte dell’autore, esemplificato in immagini poetiche. Qui è affrontato il tema della metamorfosi quando la dodicenne amazzone con le fosche brachesse dell’incipit, che invita il poeta a venirsi a coricare con lei, nella chiusa si trasforma in una vecchia sdentata. Alcuni componimenti hanno per oggetto una tematica religiosa come Età del corpo, tratta da Atropo dei giorni, libro nel quale si manifesta l’universalizzante coercizione del tempo. Nella suddetta composizione in forma di monologo l’io – poetante molto autocentrato s’identifica in Gesù tradito e crocifisso, un Cristo sui generis che ha vissuto a carponi in branchi di sciacalli e che si è rincantucciato nelle tane dei rettili. Paradossalmente è un Cristo guidato dallo spirito del male, dato sconvolgente e provocatorio. Ed è un Cristo che ha visto nudo nel Tempio il corpo della donna, bella immagine trasgressiva sul filo del binomio erotismo – misticismo, estremi che si toccano. Non a caso nella concezione cristiana Gesù è la Parola, il Verbo incarnato e bene s’intonano, s’inseriscono, la sua raffigurazione e la sua presenza in poesia, perché la stessa poesia è fatta di parole. Si riscontrano spesso nei componimenti mistero, sospensione e magia legati ad un senso di precarietà. In Teofagia, tratta da Corporis Verbum, il tu è Dio e la fisicità si fa voce attraverso i sensi che affrancano il corpo e il poeta non possiede null’altro per invocare. Proprio attraverso il percorso dei sensi si arriva al grido primo della nascita in un’esistenziale diacronia. Il termine teofagia designa la consumazione di una vittima sacrificale di carattere divino e bene si adatta ai contenuti e alle atmosfere della poesia.
Si tocca quindi la tematica religiosa della mistica corporea essendo il poeta concentrato soprattutto sulle sue sensazioni fisiche, sulla sua propriocezione, che vengono prima del pensiero nel dualismo corpo – mente. Nell’esteso componimento sono presenti delle strofe in corsivo nelle quali ci si rivolge ad un tu presumibilmente femminile al quale viene chiesto di ripristinargli proprio la forma del corpo. I componimenti sono pieni di mistero e hanno venature neo orfiche e in essi la mera fisicità proviene da un corpo cogitante. Tra le immagini, che scaturiscono da un inconscio controllato, si stabiliscono spesso connessioni e a volte viene toccato il tema dell’epica del quotidiano. In altri casi le icone si dispiegano con una suadente dolcezza evocativa attraverso una forte eleganza formale. Con il loro andamento notevolmente ritmico i versi sgorgano con naturalezza, senza il minimo sforzo apparente, e nello stesso tempo, sono concentratissimi e avvertiti nella loro icasticità. Queste caratteristiche rendono irripetibile un’esperienza che diviene un vero unicum non solo nella letteratura greca contemporanea.